L’autrice di ‘Uroboro’ si confessa e si definisce senza tanti giri di parole “una persona dalle vedute contrastanti e amante dei tattoo, a loro volta, ambivalenti”.
Valentina Dallari è una fan genuina della musica e dei tatuaggi. Reduce da un passato televisivo in un noto talk show pomeridiano di Canale 5, nel gennaio del 2018 ha confessato ai media italiani d’aver iniziato le cure per combattere l’anoressia.
Dopo aver vinto la sua battaglia medica e personale, Valentina ha aperto un blog (‘In her shoes’) dedicato al delicato argomento ed è tornata a fare la DJ tra uno stop e l’altro dovuto alla pandemia.
‘Uroboro’, uscito qualche mese fa, è il suo secondo libro, introspettivo fino all’estremo, che segue il debutto ‘Non Mi Sono Mai Piaciuta’ del 2019, una sorta di autobiografia dedicata ai suoi anni più difficili. Proprio da quest’ultimo libro e dal suo titolo emblematico partiamo con la nostra conversazione fatta (anche) di esoterismo ed inchiostro.
Scusa la bizzarra associazione d’idee, ma almeno da tatuata ti piaci un po’ di più?
Onestamente non so che dirti perché non ho mai visto i tatuaggi, intendo tutti i tatuaggi di questo mondo, come qualcosa di meramente estetico. Mi piace collezionare esperienze di vita, quello sì, e un corpo tatuato in definitiva rappresenta solo una mappa piena di indizi che dovrebbero ricondurti, col pensiero, a ciò che hai vissuto.
Perché non ti sei mai piaciuta?
Il titolo del mio primo libro si riferiva ad una condizione interna, non estetica. E, da questo punto di vista, i tatuaggi mi hanno sicuramente aiutata, a livello psicologico, assumendo come le fattezze di un’armatura. Una bella armatura artistica in grado di proteggere il mio io più profondo dalle brutture del mondo esterno.
In ‘Uroboro’ parli in qualche maniera di tatuaggi?
Non in maniera esplicita, ma tra quelle pagine effettivamente qualcosa c’è. (sorride)
Ad esempio?
Beh, ad un certo punto compare una mia poesia in cui dico che sono fatta di “amore” ed “odio”. Esattamente come le due parole francesi – ‘Amour’ e ‘Haine’ – che ho tatuate ai lati dello sterno e che sono letteralmente sputate da due serpenti marchiati su entrambe le mie spalle. In ‘Uroboro’, inoltre, mi soffermo spesso e volentieri sulla mia predilezione per il nero che è sia la mia bandiera esistenziale che il colore dell’inchiostro di quasi tutti i miei tattoo.
Sei un’anima dark?
Diciamo che i corpi vuoti e “puliti”, così come i luoghi asettici, continuano a trasmettermi un pizzico d’ansia. Sai, ho sempre cercato nei contrasti una sorta di soluzione per tirare avanti e vivere meglio.
E quindi ben venga un po’ di inchiostro nero a contatto con una pelle così candida come la mia…
L’uroboro, alias il simbolo alchemico del serpente che si morde la coda generando di conseguenza la forza rigenerante dell’infinito, è uno dei soggetti più diffusi per quel che riguarda la tattoo art di stampo esoterico. E tu, manco a farlo apposta, l’hai piazzato in copertina come titolo del tuo secondo libro. Solo una casualità?
Affatto. Sono una grande appassionata di tatuaggi esoterici – ti basterebbe guardare la mia schiena per rendertene conto – e sul mio corpo abbondano simboli come la luna nera, le rune, gli occhi egizi, la carta dei tarocchi ecc.
Quando è iniziata esattamente questa tua ricerca iconografica e cutanea?
Mi tatuo da quando ho 18 anni e, soprattutto, da quando mi sono potuta permettere di pagare di tasca mia la tariffa di un tatuatore! (ride) Sai, in famiglia non erano molto intrigati, giusto per usare un eufemismo, da questa mia strana passione…
Direi che da allora ne hai aggiunto di altro inchiostro su di te.
Sì, e non ho mai rinnegato nulla di ciò che sfoggio su pelle. Eppure, col passare del tempo, è aumentata anche la consapevolezza da parte mia di scegliere soggetti più legati al mondo dell’alchimia e delle forze arcane che, da sempre, fanno girare il mondo.
Però l’uroboro non te lo sei ancora tatuato: come mai?
Hai ragione e ti assicuro che, giunti a questo punto, me lo tatuerò alla prima occasione utile. Perché finora ho procrastinato la cosa? Beh, forse aspettavo l’uscita di questo secondo libro – che ho scritto da sola, l’estate scorsa, chiudendomi in casa e tirando fuori tutto ciò che avevo da dire – per decidermi una volta per tutte.
Cosa rappresenta per te quel simbolo?
L’uroboro è bellissimo perché sa racchiudere in sé la ciclicità dell’esistenza. Si tratta di un qualcosa di molto positivo e – immagino – destinato a infondermi parecchia forza.
Hai tatuato il tuo anno di nascita, il 1993, in verticale lungo il collo. E, manco a farlo apposta, a settembre di quell’anno…
Usciva in tutto il mondo ‘In Utero’, il terzo album dei Nirvana! Esatto, come potrai notare da certe foto che ho disseminato su Instagram, loro sono la mia band preferita e credo che tale culto derivi da mio papà che ha sempre avuto una gran bella cultura rock e, da giovane, suonava anche la chitarra.
Tra l’altro di Cobain e soci ho pure una citazione tratta dalla canzone ‘Heart-shaped box’ (‘I wish I could eat your cancer when you turn black’. Ndr) tatuata sotto la figura dei due amanti che ho impressa sul mio braccio sinistro. Forse essere nata proprio quell’anno non è stato esattamente un caso…
Tu, oltre a scrivere, fai anche la DJ, giusto?
Sì, suono nei club e il mio genere si rivolge alla musica elettronica muovendomi verso sonorità di matrice breakbeat e tech-house. La musica fa parte della mia vita fin da piccola e non ho mai smesso di ascoltarla anche se, a dirtela tutta, i vinili li adopero solo nello stereo di casa! (ride) Nei locali vado più di chiavette e laptop.
Al centro del petto hai impresso un numero particolare: il 13. Ho letto che quella cifra rappresenterebbe il numero effettivo delle tue “morti” in Terra. Mi spieghi meglio il concetto?
Le cose stanno proprio così. E le “morti” a cui facevi riferimento, ovviamente, sono state tutte metaforiche oltreché foriere di una relativa evoluzione. Una rinascita personale che mi ha permesso di andare avanti. Quel 13, comunque, non è legato solo al periodo in cui ho dovuto lottare contro l’anoressia; anche se, te lo concedo, quella è stata di sicuro la mia “morte” più intensa e complicata visto che ero arrivata a pesare qualcosa come 37 chili…
Posso farti una domanda abbastanza impegnativa?
Certo. Chiedimi pure ciò che vuoi.
Pensi che un semplice tatuaggio potrebbe mai, in qualche maniera, “parlare” di anoressia? Sarebbe in grado – tramite una scritta o un soggetto ad hoc – di lanciare un messaggio solidale verso chi soffre di disturbi alimentari?
Bellissimo quesito. Forse hai anticipato i miei pensieri visto che è da tempo che mi frulla in testa l’idea per un tattoo simile, ma non ho mai trovato un soggetto così forte e capace di “sintetizzare” il messaggio in questione.
Sono convinta che l’arte scateni sempre qualcosa; e in questo caso lo farebbe attraverso un tattoo, suo malgrado, decisamente cupo.
A chi ti rivolgeresti per realizzarlo?
Non lo so. Di tatuatori bravi finora ne ho conosciuti parecchi – da Marco Leoni e Sergio De Angelis fino a Erox di ‘Satatttvision’ – ma per un tatto del genere davvero non saprei. Ah, in passato mi sono trovata bene anche al ‘No More Pain Tattoo’ di Luca Pugno ed altri soggetti ancora me li sono fatti tatuare in uno studio di Roma.
Ultima domanda: ad un terzo libro hai già cominciato a pensare?
Al momento no visto che, ora come ora, vivo più una fase più da lettrice. Sai, ho appena acquistato la prima edizione originale di ‘V.M. 18’ di Isabella Santacroce (uscito in libreria nel 2007. Ndr) e ne sto centellinando le pagine per prolungare il piacere della lettura.
Insisto: al prossimo giro te lo immagini un romanzo firmato Valentina Dallari?
Eh, sarebbe bello se trovassi un’idea originale o una metafora vincente. Per scrivere devo ricrearmi ogni volta la mia bolla personale, chiusa in un luogo che amo e completamente staccata dal mondo esterno. Raggiunto quello status, credo che mi tornerà la voglia di esprimermi su carta.
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