Dopo il debutto a Roma della sua mostra ‘Pane, Marmellata e Me’ (ispirata da una vecchia canzone di Cicciolina) facciamo la conoscenza di una artista/tatuatrice a tutto tondo.
Marika, hai definito “inutile” il tuo percorso di laurea in Storia dell’Arte ed ora invece fai l’artista tra mostre e tatuaggi. Io direi di partire proprio di qui. Da questo tuo approccio personale, non minato da troppi formalismi ed erudizione…
Quando ho detto di essermi laureata “inutilmente” con molta probabilità ero in uno di quei momenti in cui non vivevo con totale serenità il mio attaccamento all’arte e al mio percorso di studi. Magari era anche uno di quei periodi in cui facevo altri lavori per coltivare il mio. Sai, vivere di arte è bellissimo: un privilegio che non esclude però complessità e fragilità difficili da evitare, soprattutto qui in Italia. E fare l’artista a tempo pieno è una cosa con cui ancora sto facendo pace… (sorride)
Forse te l’hanno già chiesto, ma perché il nome d’arte D’Ernest?
Quello l’ho dedicato ad Ernesto, mio figlio che ormai ha quasi 6 anni. Nella vita ho due pilastri intellettuali (nel senso di politici e ideali) che sono Ernestine Simone de Beauvoir ed Ernesto Che Guevara e il nome del mio bambino l’ho deciso quando ancora la pancia non era evidente. Ernesto è arrivato in questo mondo rivoluzionandomi completamente. E poi vogliamo parlare di Oscar Wilde e della sua opera ‘L’importanza di chiamarsi Ernesto’…?
Parlami del tuo primo approccio in assoluto con il mondo della tattoo art. Di quel primo tatuaggio che realizzò su di te Rocco Buono del ‘Dermal Art Tattoo Studio’ di Gravina in Puglia…
Quando mi sono fatta fare il mio primo tatuaggio da Rocco, non avevo idea di cosa fosse questo mondo. Ne ignoravo totalmente la sua cultura. Rocco aveva un piccolo studio nella piazza del paese, ci andai con mia sorella e mi tatuai una goccia – una lacrima dietro la schiena – su mia richiesta, perfettamente al centro! (ride) Adesso quella che era una lacrima colorata, è parte della coda di una sirena preda di un’aquila.
Ed è pure coperta perché qualche anno fa ho deciso di farmi tatuare l’intera schiena da Stefano Prestileo (IG: @prestileotattooing) del ‘Blue Port Tattoo’ di Genova, alias uno dei tatuatori che mi ha trasmesso la passione per il tatuaggio storico e mio grande amico. Ormai sono 17 anni che mi faccio tatuare e direi che si tratta di un percorso che mi ha permesso di incontrare le persone che hanno, in maggior modo, nutrito la mia crescita.
Il fatto che tu abbia deciso di tatuare tutto a mano, in una sorta di “unplugged tattoing”, nasce dal fatto di volere andare contro una industria basata al 99% sulla macchinetta elettrica?
Stranamente, e almeno in questo caso, non voglio andare contro nessuna industria! (ride) All’inizio ho fatto qualche brutto tatuaggio a macchinetta, ma sentivo che quello non era il mio percorso. Quando per le strade di Bologna o nel mio paese in Puglia, mi capitava di incontrare persone con tatuaggi fatti a mano “in villeggiatura” (in carcere. Ndr), li fermavo e mi facevo raccontare la loro storia.
Quelle donnine ormai verdi, le scritte d’amore, i volti delle sante su petti pieni di cicatrici, le farfalle, i fiori di un romanticismo spietato su corpi di persone non esattamente rassicuranti, li trovavo e li trovo tuttora pregni di un fascino unico. Ne percepivo l’autenticità. Cosi ho deciso di percorrere, con una certa ambizione, questa strada.
La domanda è: perché?
Forse perché mi piace ambire al tatuaggio autentico, imperfetto, emozionato. Cosa che ho riscontrato facendolo e facendomi tatuare a mano. Sicuramente non ho l’agenda piena in tal senso, ma eppure sono qui a raccontartelo.
Quando lavori al ‘Black Swan Tattoo’ di Bari o vai a fare dei guest al ‘Sorry Mom’ di Bologna, al ‘Kiku Tattoo Studio’ di Roma o al ‘The Tattoo Shop’ di Milano, ti senti mai come una musicista blues del primo Novecento armata di chitarra acustica che va a proporre la sua arte nei templi delle chitarre elettriche?
No! (scoppia a ridere). Qua mi tocca citare Cesare Pavese e ti rispondo dicendoti che mi sento “come una trota”.
Il tuo, quando non è astratto, è un tatuaggio erotico; anzi direi decisamente erotico. Lo ritieni anche un tatuaggio “politico” e riconducibile alle battaglie di genere?
Sì, dai miei disegni, quadri e tatuaggi emerge senz’altro la mia sensibilità alle tematiche di genere. Ho fatto delle scelte nella mia vita molto radicali e la parità di genere, il transfemminismo e la libertà delle persone sono decisamente i miei fari. Se vogliamo definirlo un tatuaggio politico, facciamolo pure. D’altronde credo ancora che un semplice tattoo, nonostante la sua massificazione, possa veicolare messaggi molto forti, chiari e semplici allo stesso tempo. Si tratta del corpo che diventa politico, no?
Veniamo alla tua mostra ‘Pane, Marmellata e Me’ che debutta il prossimo 28 maggio alla libreria Uroboro Bookshop di Roma. Prima di tutto spiegami come ti è venuta in mente quella misconosciuta canzone di Ilona Staller del 1977 che è una specie di reggae/dub primordiale nella discografia italiana. Io non la conoscevo, ma devo dire che è davvero originale…
Ero a pranzo con il mio amico Michele Santella, grafico, serigrafo e collezionista di vinili. Si parlava della mia mostra, di pornografia e ovviamente delle canzoni pop di Moana Pozzi e Cicciolina (ovvero Ilona Staller. Ndr). Mi ha fatto ascoltare quel pezzo che avevo rimosso dal mio cuore. ‘Pane, marmellata e me’ è una canzone d’amore, un invito alla convivialità. Semplice, dolce e divertente come la vita che vorrei. Roba da poco, vero? (ridacchia)
La contaminazione dei tuoi disegni coi personaggi della Disney (Pippo e Topolino), vale a dire l’antitesi dell’erotismo, è un modo di infondere ancora più eros ed ambiguità in ciò che stai creando? Il famoso contrasto interiore dell’arte?
Pippo, Topolino o altri personaggi buffi che rubo volentieri ad Andrea Pazienza, Robert Crumb o Max Fleischer ecc. rappresentano semplicemente il mio sguardo ironico sulle cose della vita. Sono affiancati a donnine che dicono cose importati o citano le scrittrici che amo in pose sexy. Facendo così ridicolizzo il cosiddetto “male gaze”. Trovo questo dialogo divertente e a volte me la rido da sola mentre disegno.
E le tue ultime parole famose sono…?
Beh, come direbbe l’indimenticabile Monica Vitti : “Io non lavoro, amo!”. L’hai mai visto il suo film ‘L’anatra all’arancia’ diretto da Luciano Salce? Semplicemente meraviglioso.
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