«Un tatuatore non torna mai indietro». Così, con ferrea convinzione, ci spiega il suo mestiere Marco, presenza fissa al ‘Primordial Pain Tattoo’ di Milano e maestro del Dotwork.
Marco, quando le “sacre linee” (ovvero i tatuaggi Dotwork) hanno incrociato per la prima volta il tuo percorso di vita?
Fai bene a domandarmelo perché ricordo come se fosse ieri quel periodo. Nel 2011 il grande Roberto Borsi (titolare dello studio ‘Primordial Pain Tattoo’ di Milano. Ndr) era appena rientrato da Londra con un regalo per me: un libro di geometrie di Thomas Hooper (IG: @thomas__hooper). Donandomelo mi disse semplicemente di prendere spunto e di “volare” verso quel determinato stile.
Da lì in poi cos’è successo?
Roberto ed io abbiamo passato tantissimi momenti insieme. Disegnando e cercando di far sì che quel determinato stile entrasse a far parte di me. Lui mi osservava disegnare e notava come in ogni mio progetto non mancasse mai un riferimento al sacro. Un sacro schematizzato e riprodotto sotto forma di linee. Da quel momento iniziò a chiamarmi con questo soprannome – ‘Le Sacre Linee’ – ed io lo feci subito mio.
Cosa vedi in uno come Roberto Borsi all’alba del 2022?
Vedo un artista a 360 gradi che dopo vent’anni di passione per lo stile Dark si è rimesso in discussione diventando oggi uno dei maggiori esponenti italiani per quel che riguarda il tradizionale Giapponese.
A lui devo davvero tanto di quello che sono come uomo e di quello che sono riuscito a costruire artisticamente attorno a me.
Sono certo che il giusto ringraziamento per rapporti di fiducia e rispetto come il nostro sia collaborare assieme ancora a lungo. Ecco perché mi vedo per tantissimi altri anni come una presenza fissa al ‘Primordial Pain Tattoo’.
Tempo fa ho avuto modo di intervistare Silenoz, il chitarrista dei Dimmu Borgir, che mi ha svelato come conoscesse bene ed apprezzasse il ‘Primordial Pain Tattoo’. Confermi?
Confermo eccome! (sorride) Silenoz è amico di Roberto da anni. Lo ho scelto per la sua bravura conclamata nello stile Dark e una volta, Silenoz, raggiunse lo stesso Roberto a Stoccolma, durante una convention, per continuare il lavoro su di un suo tatuaggio in progress.
Torniamo alla tua storia. Fu amore a prima vista con le “sacre linee” o ci hai messo un po’ a maneggiare la materia?
In realtà è stato un vero e proprio colpo di fulmine! (ride) Nel 2013 la mia continua fame di ricerca mi ha portato a conoscere un grande artista che ancora oggi viene definito ‘The Dot Father’, vale a dire il grandissimo Xed Le Head. Proprio lui mi ha dato la possibilità di lavorare come guest nel suo studio di Londra, il ‘Divine Canvas’, e proprio li ho avuto la grande fortuna di innamorarmi di questo stile conoscendo tantissima gente. Persone con corpi interi decorati da forme geometriche e psichedeliche che solo una mente geniale come quella di Xed poteva tatuare con una così grande precisione sartoriale.
Mi racconti esattamente quando c’è stato il tuo distacco dal colore per abbracciare il culto dell’inchiostro nero?
Non si è trattato di un distacco netto ed immediato dal colore ma, esattamente come per tutto il mio percorso, ci sono arrivato passo dopo passo, grazie ad anni di studi e influenze artistiche. Ho avuto la grande fortuna di conoscere e collaborare con tantissimi artisti, ma poco alla volta la direzione è andata in maniera naturale a focalizzarsi sempre di più con chi questo stile lo viveva totalmente… black!
Persone tipo Nazareno Tubaro (IG: @xnazax), un artista che oggi reputo la punta di diamante dello stile Tribale. Ecco, con lui ho collaborato per diversi tattoo stringendo un’amicizia che definirei speciale.
In questo mestiere chi si ferma è perduto, ma tu un “bravo” ogni tanto te lo concedi alla luce dei tanti tatuaggi Dotwork/Geometrici/New Tribal che sei riuscito a portare a termine?
Guarda, lavorando prevalentemente su pezzi medio-grossi, ho questa grande fortuna d’intraprendere ogni volta un percorso unico con i vari clienti. Sono sempre soddisfatto del percorso umano che viene affrontato, ma oggi ho la testa totalmente invasa da nuove idee che non mi basterà sicuramente una vita intera per trasferirle su pelle. Quindi non sono ancora arrivato al punto di dirmi “Bravo, Marco!” perché, a mio avviso, questo significherebbe che la mia fiamma è vicina allo spegnimento…
Addirittura?
Sì. Un artista dev’essere in continua evoluzione. Non deve mai fermarsi e pensare di avere raggiunto la vetta del successo. Un vero artista non ha fame di certezze concrete, ma si alimenta quotidianamente di qualcosa che nessuno può comprendere finché non se lo sente dentro. Questo è ciò che caratterizza i tatuatori senza etica da quei tatuatori che invece vivono tutta la loro vita in funzione di ciò che amano.
Il romanticismo di questo mestiere non è per tutti!
Come nasce il concept di un tuo tatuaggio?
Beh, può essere visto e organizzato in due modi: ci sono clienti che hanno preferenze di stile, (geometrie, bilanciamenti ecc.) e di conseguenza mi sottopongono le loro idee da sviluppare. Ed altri che mi concedono totale carta bianca facendomi sperimentare con gli elementi che in quel determinato periodo mi hanno influenzato. Lavorare in questa maniera, dandomi campo libero, mi stimola tantissimo perché tutto viene creato, studiato e vissuto sulla base del periodo di vita che sto affrontando. Ed è proprio lì, in quel determinato tatuaggio, che cerco di trasferire indelebilmente le sensazioni che sento mie in quel preciso momento.
Hai lavorato e tatuato un po’ ovunque (Inghilterra, Nepal, Olanda, Finlandia, Polinesia Francese ecc.) e hai pure dei guest fissi tra Londra e Barcellona. In mezzo a tutto questo viaggiare e spostarsi cosa rappresenta per te una base pluridecennale come il ‘Primordial Pain Tattoo’ di Milano?
Sì, ho avuto la fortuna e la volontà di lavorare in gran parte del mondo. Ho abbracciato e visto culture che i libri di viaggio non potranno mai raccontare. Ho ascoltato da vicino bacchette e martelletti al lavoro provando sensazioni indescrivibili.
Ho tatuato con sfondi mozzafiato come la maestosità dell’Himalaya con i monaci che recitavano i loro mantra per benedire il momento.
Oppure su splendide spiagge polinesiane facendo Hand-Poke. Tutto ciò mi ha dato la possibilità di racchiudere sempre qualcosa di “vivo e vissuto” nel mio piccolo mondo facendomi crescere come persona. Eppure, anche un nomade come me, possiede eccome il suo punto fermo. Un luogo chiamato ‘Primordial Pain Tattoo’ che, dopo tredici anni di attività, sento davvero come casa.
Giusto in conlusione: un segreto che ti va di svelarci?
Beh, le cosiddette fonti d’ispirazione (forme nuove, sfumature ecc.) sono tutte attorno a noi. Le possiamo trovare in natura, nell’architettura che ci circonda e nei movimenti delle persone che vivono la loro vita. Basta saper guardare le cose con amore e passione. Un tatuatore – per come lo intendo io e usando giusto quel pizzico di romanticismo e nostalgia – possiede un biglietto di sola andata. Non si ferma e soprattutto non torna mai indietro. Anzi, cerca sempre di raggiungere nuove mete ed obiettivi per sentirsi vivo.