Intervista esclusiva all’autrice di “Anatomia di un Cuore Selvaggio”. Che poi sarebbe la storia della sua vita. Dove c’entrano, per buona parte, anche i tattoo…
Asia Argento ha pubblicato lo scorso gennaio la sua prima autobiografia intitolata “Anatomia di un Cuore Selvaggio” contenente forse una piccola citazione di quel capolavoro del 1990 (“Wild at Heart”) messo su pellicola dal grande David Lynch. Un libro estremo come pochi, il suo. Perché, nel giro di 245 pagine, non fa sconti a nessuno (alla sua famiglia, ai suoi amanti, agli orchi incontrati in quel di Hollywood, a sé stessa: soprattutto a sé stessa) utilizzando contemporaneamente un linguaggio che pare la loquacità schietta del rock ‘n’ roll. Un po’ “Nebraska” di Bruce Springsteen, un po’ “Dirt” degli Alice In Chains, un po’ “White Pony” dei Deftones: quest’opera è un confessionale disturbante, tra un millennio e l’altro, al quale siamo tutti invitati.
Un libro, oltretutto, arricchito in copertina da un organo vitale rigorosamente squarciato che – come scopriremo dialogando con Asia – è lo sketch di un noto tatuatore internazionale. Vi lasciamo quindi alla lunga conversazione che Tattoo Life ha avuto il piacere d’intrattenere, qualche settimana fa, con l’attrice e regista romana. Simbolo globale di quella lotta contro il marcio che avremmo conosciuto meglio come #metoo. La figlia di uno dei più grandi visionari del Novecento. Una italiana vera.
Nel prologo del tuo libro metti subito in chiaro le cose scrivendo che spesso, in pubblico, ti sei mostrata come una “falsa me”. Essenzialmente per corazzarti contro le insidie dello show business…
Sì, ma se qui parliamo di tattoo art, allora sono sempre stata una “vera me”… (sorride) Nel senso che io i tatuaggi li volevo fin da quando avevo cinque anni. A quei tempi continuavo a ripetere ai miei genitori e alle mie due sorelle che, da grande, quei benedetti disegni su pelle sarebbero stati miei.
La prima volta a contatto con l’inchiostro, esattamente quando?
Ad Amsterdam, quando avevo quattordici anni: mi feci un occhio sulla scapola sinistra che conservo tuttora. Po, attorno alla maggiore età, mi sono regalata il famoso “angelo femminile” che ho tra la pancia e il pube.
E lì, ovviamente, partono le prime controversie…
Guarda, sarà stato il tardo autunno del 1995. Il settimanale L’Espresso mi chiese di posare in copertina e io mi presentai allo shooting con una giacca di pelle senza maglietta sotto, lasciando quindi quel tattoo ben visibile. Apriti cielo! Mezza Italia se ne accorse (compreso mio padre al quale ero riuscito a celarlo per un paio di anni…) e cominciarono a fioccare le prime malignità. Mi diedero della bad girl, della malata di sesso, della perversa, di una che era arrivata a tatuarsi la vagina.
E invece per me quell’angelo era, ed è, un simbolo spirituale legato all’energia positiva del Chakra.
Me l’ero impresso sullo stomaco perché è lì che si scatenano le nostre emozioni più viscerali.
Quel tatuaggio era in parte ispirato ai Nirvana, vero?
Già. Me lo fece uno storico tatuatore di Roma: Bruscolino (al secolo Massimo Grilli. Ndr), uno dei fondatori della Roma Tattoo Convention. E le ali dell’angelo erano nient’altro che un tributo a “In Utero”, il terzo ed ultimo album dei Nirvana che usciva proprio in quel periodo.
Anni dopo avresti girato “Last Days”, film per la regia di Gus Van Sant incentrato (in forma romanzata) sull’ultimo periodo di vita di Kurt Cobain. A proposito, tu il leader dei Nirvana l’hai mai conosciuto di persona?
Sì, quello è un racconto che avrei voluto mettere nel libro, ma alla fine non ce l’ho fatta. I Nirvana me li ero già goduti dal vivo negli States, ma quella volta a Roma fu davvero paradossale. In pratica avevano invitato la band ad esibirsi a “Tunnel”, un programma satirico di Rai 3 dove girava parecchia musica alternativa. Io mi trovavo nel corridoio esterno allo studio, poco prima della registrazione, e chi viene a sedersi accanto a me? Kurt Cobain in carne e ossa che, gentilmente, mi chiede una sigaretta. Ed io, impietrita e vestita un po’ punk/un po’ hippie (in fondo erano gli anni ’90…), gli allungo una squallida multifilter senza proferire parola.
Troppo emozionata?
Timida lo ero senz’altro, ma forse in quel caso prevalse il pudore. Sai, io all’epoca un po’ di cinema l’avevo già fatto (compreso “Trauma”, diretto da mio padre Dario – girato l’anno prima in America) e quindi conoscevo i disagi che la fama può arrecarti. Insomma, evitai di importunare Cobain con delle richieste da fan. Poi, nel giro di un mese, vengo a sapere prima del suo tentato suicidio a Roma e poi della sua morte a Seattle. Mi è rimasto dentro un rimorso che talvolta spunta ancora fuori. Quel giorno mi sarebbe piaciuto portarlo a visitare la Capitale in motorino, offrirgli una canna, cose così, da ragazzi. Scuoterlo un po’ da tutto quel disagio che stava vivendo. Almeno un po’.
Torniamo a quel 1995 e a quella famosa copertina con il tattoo dell’angelo in bella mostra. Ti sei mai sentita una sorta di Suicide Girl ante litteram? Una “madrina” di quel movimento erotic-punk?
Guarda, negli anni ’90 avrei tremato alla sola parola “madrina”. Anche perché io, a quei tempi, volevo essere icona di un bel niente. Se certe ragazze avessero provato a seguirmi, sarebbero semplicemente cadute nel burrone assieme a me! (ride) Non mi piaceva essere ammirata e certe scelte estreme le facevo solo per compiacere me stessa. Anche tatuarmi, da questo punto di vista, non era altro che seguire una mia vocazione interiore.
Oggi invece?
Beh, oggi ho 45 anni, sono una donna e ho avuto dei figli. E con certi atteggiamenti ci sono scesa finalmente a patti. Quindi sì, le Suicide Girls penso d’averle anticipate eccome. Perlomeno qui in Italia… (sorride)
Nel libro scrivi che, attorno al 2013, ti torna prepotente la voglia di tatuarti. Quale fu il motivo principale?
Il motivo fu più di uno, ma per fartela breve mi ero stufata di essere una tela bianca. Sia sul set che quando mi invitavano per fare delle ospitate. E poi le case cinematografiche continuavano a propormi questi film in costume di cui mi ero letteralmente rotta le palle…
Immagino.
Sai, io di pellicole del genere ne ho girate parecchie in carriera. Dal 1500 ai primi del Novecento le varie epoche storiche penso di essermele passate un po’ tutte! (ride) E il diktat era sempre lo stesso: il regista, d’accordo con la costumista, non vuole vedere neanche mezzo tatuaggio. Non ti racconto neanche quante ore d’areografo mi sono fatta in passato per coprire il tattoo dell’angelo. Una volta, modello film dell’orrore, sono addirittura arrivati ad applicarmi una crosta cutanea fasulla per non turbare l’occhio dello spettatore…
Quindi la tua è stata una scelta politica: di riappropriazione del tuo corpo.
Esatto. Poi in quel periodo ci si mise anche il mio ex marito (il regista Michele Civetta. Ndr) che non vedeva di buon occhio i tatuaggi sulle donne che avevano passato la trentina. Io ci ho provato per anni a dargli retta e a convertirmi a una morigerata vita borghese. Poi, quando la scelta definitiva è stata tra levarmi i tatuaggi col laser o levarmi il coniuge, indovina cos’ho scelto? (ride)
In quel periodo, se non vado errato, conosci anche Marco Manzo del “Tribal Tattoo Studio” di Roma…
Già. E divento subito la sua “eletta” nel senso che il nostro bel work in progress fatto di splendidi tatuaggi prosegue tuttora. Marco Manzo (@marcomanzotattoo) mi è stato subito simpatico perché era totalmente contrario alla rimozione via laser dell’angelo. Così, di suo, me lo ha restaurato alla perfezione.
Poi siamo andati dritti sui fianchi dove mi ha realizzato delle geometrie sacre, successivamente siamo passati a dei tattoo ornamentali e infine siamo arrivati all’opera d’arte per la quale, oggi, tutti mi riconoscono: quell’elaborata collana d’inchiostro black ‘n’ grey che sfoggio attorno al collo. Il cui design è stato creato dalla compagna di Marco, Francesca Boni, una grande artista grafica che compila anche delle playlist musicali di gran gusto.
L’antefatto di quella collana tatuata fu la fatidica Cannes…
Confermo. Un anno mi invitarono per sfilare sulla Croisette e mi diedero anche un pacco di soldi per indossare dei gioielli decisamente pacchiani e ingombranti. Tra questi c’era pure una grande parure di smeraldi che, quando me la agganciarono al collo, mi fece sentire come un albero di Natale ambulante. Proprio a me, capisci? Io che per sentirmi a mio agio dovrei sempre girare in scarpe di tela, jeans e t-shirt degli Slayer…
Come andò a finire?
La sera in albergo mi guardai allo specchio e dissi a me stessa “Asia, mai più”. Tornai in Italia e ricominciai a darci dentro con l’inchiostro partendo con dei piccoli Russian tattoo sulle braccia, di quelli che sfoggiano i carcerati. Poi, per caso, conobbi Marco Manzo che aveva lo studio sulla Cassia, vicino a casa mia. A quel punto mi si aprì letteralmente un mondo e scoprii una volta per tutte che solo l’aggiunta d’inchiostro sul mio corpo mi avrebbe liberato da tutte quelle logiche ferree dello show business.
Tant’è che, dopo la collana, scelsi di regalarmi anche un signor back piece.
Giusto: parlami del tatuaggio che hai sulla schiena.
Non vorrei fare troppi spoiler, come nei migliori film, ma è ispirato a un corsetto realizzato sempre da Marco Manzo tramite il design di Francesca Boni. I colori verdini al suo interno sono quelli del Mediterraneo, un mare dove mi piace nuotare per ore. E proprio nuotando, qualche estate fa, mi è venuta l’idea di fare un tattoo del genere. Perché con tutto quel nuoto e quell’esercizio fisico, dentro di me, mi sentivo già un po’ sirena degli oceani… (sorride)
Hai sentito dolore in quel caso? Immagino che sia il corsetto che la collana siano stati tatuaggi impegnativi da realizzare…
No, quello no. Un po’ perché possiedo una soglia di sopportazione molto alta, un po’ perché Marco ha un tocco delicatissimo quando tiene in pugno la sua macchinetta ad aghi. Sai, mettendo assieme tutto il mio inchiostro, avrò passato non ore, ma giorni interi nel suo studio sulla Cassia, senza mai avvertire fastidio.
E comunque, nel mio caso, il tatuaggio non sarà mai e poi mai dolore.
Al massimo meditazione interiore. Un frangente costruttivo che prendo per me esattamente come chi, per rilassarsi, va a trascorrere un pomeriggio alla spa.
Un altro artista importante che ha lavorato sulla tua pelle è Akilla. Al secolo Akilla Horiyamato, un membro della celebre famiglia Horitoshi. Che mi dici di lui?
Che ci siamo conosciuti su Instagram. Akilla aveva postato una mia foto e da lì abbiamo cominciato a scriverci. Io volevo che mi tatuasse una delle sue famose peonie orientali e, quando è stato il momento che lui doveva venire in Italia per partecipare alla Roma Tattoo Convention, ci siamo inventati questo folle baratto: io gli avrei fatto un piccolo tattoo e lo stesso Akilla avrebbe ricambiato con una delle sue opere floreali sulla mia coscia destra. Da cosa nasce cosa e, nel frattempo, lui si è pure occupato di realizzare quel cuore trafitto da una freccia che compare sulla copertina della mia autobiografia.
Asia Argento è anche… tatuatrice?
Macché. Le uniche due persone che ho tatuato finora in vita mia sono stati il povero Akilla e una mia amica che si occupa di teatro. Al primo mi sono limitato a fare la mia tag (“AZ”) con cui mi firmavo da pischella. Alla seconda invece ho scritto la frase “Long Love Die” che mi ero fatta io stessa dopo la tragica scomparsa di Anthony (Anthony Bourdain, legato sentimentalmente alla Argento fino alla sua morte, avvenuta nel 2018. Ndr). E in quel caso direi che ho fatto un bel pasticcio sul corpo della mia amica… Sorry!
Akilla ti ha tatuato anche quel serpente floreale che parte dalla tua coscia sinistra per terminare, con la testa, su quella destra. Come andarono le cose quella volta?
Quel serpente è composto da petali di crisantemo e, dato il periodo esistenziale che stavo vivendo allora, direi che non c’è da aggiungere granché… Anthony era mancato da poco, io avevo perso il mio lavoro come giudice di “X Factor”, la battaglia globale del #metoo mi si era paradossalmente ritorta contro, poi ci fu quella assurda faccenda berlinese con Rose McGowan, che spiego bene nel libro…
Quell’estate, nell’isola del Mediterraneo dove vado per liberarmi dalle brutture del mondo, continuavo a vedere serpi ovunque e le cacciavo pure! Non ce la facevo davvero più. Avevo bisogno di un serpente finalmente buono, salvifico, nella mia vita e quindi chiesi ad Akilla di tatuarmene uno bello grande. L’ho chiamato Nori in onore di Norifumi Yamamoto, un lottatore giapponese di MMA molto amico sia mio che di Anthony. E purtroppo scomparso anche lui in quel terribile 2018… (sospira)
Sull’indice della tua mano sinistra hai la parola “Bob” mentre sul dorso sempre della stessa mano hai scritto “Saved” (tra l’altro questi due tatuaggi sono ben visibili sulla quarta di copertina di “Anatomia di un Cuore Selvaggio”). Bob è forse Dylan mentre “Saved” è il titolo del suo controverso album gospel del 1980?
Ci hai preso in pieno. Bob Dylan è dio per me e la sua trilogia religiosa (“Slow Train Coming” del ’79, “Saved” del ’80 e “Shot of Love” del ’81. Ndr) mi ha fatto diventare autistica da quanto l’ho ascoltata in vita mia. Dylan era anche l’artista preferito di mia mamma (la famosa attrice Daria Nicolodi scomparsa lo scorso novembre. Ndr) e con la musica, nel mio caso, va esattamente così: posso passare anche giorni interi a sentire la stessa canzone e adorarla come se fosse sempre il primo ascolto.
“Saved” è una parola fortissima, no?
Eccome. Con quel tatuaggio volevo infondermi l’illusione di essere finalmente “salva” anch’io. Di essermi “salvata” da qualcosa di molto brutto. Poi però la vita ha continuato a darmi la sua buona dose di mazzate, ma io non rinnego nulla.
Dimmi la verità prima di congedarci: aver scritto un libro come “Anatomia di un Cuore Selvaggio” non dico che porti alla salvezza, ma almeno un po’ di conforto, a giochi fatti, riesce a dartelo?
Beh, durante la fase di scrittura è stato terribile rivivere tutte quelle storie collegate alla mia vita. Poi, una volta consegnate le bozze all’editore, dentro di me stavo ancora male. Mi sembrava di aver stuzzicato troppo una vecchia ferita e questa avesse ripreso di botto a sanguinare. Però, dopo un mese, mi è successa una cosa strana…
Ti sei rasserenata, per aver fatto chiarezza mentale dentro di te?
Sì, qualcosa del genere. Ora mi sento addirittura bene e, mentre te lo dico, ti assicuro che sto pure un poco tremando. Oddio e se ora arrivano altre mazzate inaspettate dalla vita? Pazienza. L’importante – ripeto – è che ora sto bene. E mi viene spontaneo confessartelo.